La Basilica di Santa Maria dei Servi è un luogo che, da sempre, ha avuto un forte legame con la musica; nel Seicento, infatti, essa ospitava ben quattro organi, mentre, oggi, a sinistra del transetto, vi è il grande organo con il quale la compositrice americana Kali Malone ha dato vita al proprio set intimista e riflessivo, tentando di annullare quelle che, solitamente, sono le enormi distanze tra la sfera materiale e quella spirituale delle nostre esistenze.
Due mondi e due dimensioni umane che non sono avulse l’una all’altra; tutti noi, erroneamente, per convenienza e per comodità, ci lasciamo convincere del contrario, immergendoci, completamente, nei nostri impegni e nelle nostre routine quotidiane, nei nostri inutili conflitti e nelle nostre assurde competizioni. Ma se, almeno per un attimo, accompagnati dalle trame neo-folk ed elettro-acustiche intessute da Kali Malone, squarciassimo il velo del visibile, ci renderemmo conto del fatto che le nostre vite sono ben altro e chiedono ben altro, mentre, continuando ad ascoltare solo la voce del nostro super-ego individualista, rischieremmo di finire intrappolati in quello che è uno sterile e infruttuoso sogno virtuale circolare; una proiezione distorta, fatua ed inconsistente, della verità, imprigionata, per sempre, sullo schermo, ad alta definizione, di uno smartphone.
L’organo, invece, diventa il nostro schermo mentale, lo strumento ed il mezzo per unire le esperienze e le storie del passato con il presente, ma anche per connettere la nostra operosa coscienza diurna con quella notturna, rielaborata e suonata da Kali Malone, quella che è più disponibile e più desiderosa di aprirsi al respiro della natura, ai sussurri del vento, alle onde del mare, al susseguirsi delle stagioni e, soprattutto, al prossimo, ai suoi profondi silenzi e alle sue sofferenze, riuscendo, in questo modo, a ricreare quei legami, di empatia e di solidarietà, che sono indispensabili, se vogliamo sentirci, davvero, realizzati, appagati e completi.
Sonorità intime, attraversate da un velo di struggente malinconia; sonorità che sono, allo stesso tempo, universali e personali; sonorità che non nascondono, con le parole, le leggi, gli assiomi, i precetti o le regole, il baratro di vuoto e di oscurità bramoso di fagocitarci, anzi lo esplorano, lo attraversano, lo toccano concretamente, provando ad umanizzarlo, gettando in esso un minuscolo seme di cambiamento, di metamorfosi e di trasformazione. Un frammento pulsante che potrebbe, germogliando, spostare, persino, l’equilibrio di questo pianeta nello spazio, incastrando, una dopo l’altra, le armonie classicheggianti dell’organo con quella che è una visione darkeggiante dell’esistenza, dell’arte e della musica, una visione che non è assolutamente priva di vita, anzi il contrario, perché la reclama e la cerca instancabilmente.
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