Vivo in un paese adagiato ai piedi di dolci colline, sferzato, in continuazione, da un vento che è, a volte, impetuoso e prepotente, a volte leggero e piacevole, ma che costringe, sempre e comunque, le nuvole a restare, perennemente, sospese ed imprigionate sulle sommità di queste stesse colline. Nuvole che sembrano essere lì per ciascuno di noi, come se fossero la testimonianza, concreta e consistente, dei tumulti romantici del nostro passato: li tratteniamo dentro di noi, li conserviamo con insistenza, li sfamiamo del nostro presente, li proiettiamo nei nostri impossibili futuri, ci appigliamo ad essi per galleggiare e non sprofondare nell’indifferenza più totale e disarmante, ma, allo stesso tempo, li detestiamo con tutto il cuore, vorremmo liberarcene e vedere cosa c’è dietro quegli orizzonti invisibili che continuiamo solamente ad immaginare e raffigurare nei nostri sogni silenziosi.
Nuvole che catturano pensieri ed aspirazioni, come se fossero le tele dell’anima, mentre il coraggio e la speranza, la disperazione e lo sconforto, il destino ribelle e le nostre scelte consapevoli si disperdono in queste undici canzoni, avvolgendole di cruda e pressante malinconia, di vibrazioni indomite di indole punkeggiante e di morbide e confortevoli trame elettroniche.
Miscuglio eterogeneo di sensibilità differenti che hanno tutte lo scopo di spezzare le innumerevoli, complici, ossessive e statiche routine che ci confondono, ci avvelenano e ci fanno credere di essere impegnati, realizzati, soddisfatti, amati, considerati e, soprattutto, vivi. Ma senza il rischio, senza i sacrifici, senza il peso bruciante delle ferite aperte, nessuna esistenza può ritenersi degna di questo nome, nessuna.
E così con la campagna del Somerset che si fa sempre più piccola e distante, il disco prende il volo, tra batterie palpitanti e chitarre pungenti, oltrepassando il soffice muro delle facili comodità materiali e conducendoci nel territorio aspro della verità, dove errori, dimenticanze, torti, pegni e promesse non mantenute diventano i versi di una poesie urlante, quella che Dana Margolin intona nei passaggi più sentiti, ispirati e blueseggianti dell’album, quelli nei quali una cocente e cosciente ironia tenta di risucchiare ogni delusione passata, ogni tradimento, ogni perdita improvvisa, ogni violenza, ogni macchia di amarezza abbruttisca il candido e prezioso pallore della nostra anima inquieta. E così, quando ci sentiamo davvero a pezzi, quando gli strappi appaiono impossibili da ricucire, quando le nostre certezze si sono del tutto frantumate, quando la realtà pulsa dentro e fuori di noi, alzando gli occhi alle medesime familiari colline, ne riusciamo, finalmente, a vedere la sommità ed, oltre essa, altre città, altre persone, altre storie, altri incontri, altri abbracci, altri addii, altri momenti, altre voci che chiedono di essere conosciute e ascoltate. Perché, allora, non farlo?
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