Il tema di questo nono album della band americana è quello orrorifico, mentre le loro sonorità oscillano, al solito, tra divagazioni pop-rock, echi di blueseggiante passato, riverberi di matrice punk e surf-rock. Infatti, anche con la nuova cantante-bassista Emma Richardson, la loro musica resta fluida, in perfetta sintonia con le caotiche intemperanze del mondo moderno e, allo stesso tempo, sospesa in una dimensione sognante, irreale e fantastica.
Un non-luogo nel quale i Pixies ci mettono, dinanzi agli occhi, la nostra stessa follia, il terrore quotidiano generato dai nostri piccoli e grandi conflitti e tutti quei sentimenti negativi che, approfittando delle teorie secondo cui il futuro debba essere assolutamente liquido, inconsistente e volatile, distruggono ogni emozione, ogni passione ed ogni ideale, lasciandoci in balia di quelli che sono i nostri zombi-padroni, i nostri zombi-carcerieri, i nostri zombi-politici, i nostri zombi-influncer, i nostri zombi-controllori, i nostri zombi in divisa, in doppio petto, in mimetica e persino in t-shirt. Perché, in fondo, ormai l’abbiamo capito, il Male può nascondersi ovunque, soprattutto nei luoghi che ci appaiono più innocenti, puri o spensierati, mentre, intanto, le tredici canzoni dell’album, partendo dal seme crepuscolare e malinconico, accattivante e gradevole, di “Jane”, trasformano inquietudini, vuoto e senso di smarrimento in quelli che sono piacevoli ritornelli e fortunate melodie.
Oggi i Pixies non toccano gli apici del loro glorioso passato e ne sono consapevoli, riuscendo, di conseguenza, a non rimanere invischiati in una spirale di rimpianti e reminiscenze, ma preferendo, invece, mettersi a nudo, mostrarsi per ciò che sono, consci del tempo trascorso e di un presente che fa davvero paura. Il disinteresse generale, la perdita di umanità, l’inconsistenza della politica, la mancanza di idee e di riferimenti ci rendono, infatti, pericolosamente indifferenti a tutto quello che accade al di là della portata ristretta del nostro dispotico Io, il mostro al quale le trame dei Pixies tentano di dare una consistenza sonora, perché, forse, se alle cose riusciamo a dare un nome, una forma e una sostanza, possiamo, successivamente, cercare di combatterle, di vincerle o di cambiarle in meglio.
Questa è l’energia luminosa celata in queste ballate del terrore; ballate elettriche e incantate che si perdono nei suoni dark-wave degli anni Ottanta e che si specchiano nel veemente e viscerale alternative-rock degli anni Novanta, tracciando una linea immaginaria che possa congiungere “Doolittle” a questi zombi ostili e voraci, ovvero il nostro tempo più leggero con un orizzonte che vorremmo liberare dai brutti pensieri, dai droni, dai missili e dagli spettri della guerra; una linea capace di unire quelli che sono stati i nostri miti e i nostri eroi con ciò che stiamo lasciando alle future generazioni, perché, in fondo, ogni amore, ogni ribellione e ogni passione sono già esplose prima di noi e continueranno a farlo anche dopo di noi.
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