ONE HUNDRED YEARS [Pornography, 1982]
Cosa ne sarà di questo mondo tra cent’anni? Cosa ne sarà di tutto quello a cui, oggi, noi, poveri sprovveduti, diamo così importanza? Cosa ne sarà dei nostri (sciocchi) sorrisi e delle nostre (inutili) preghiere, di tutto quello che ci fa andare su di giri o in paranoia oppure ci fa, dannatamente, morire? Forse non ci conviene affannarci, forse quei maiali già macellati siamo proprio noi, siamo un altro tipo di soldati, ma combattiamo una guerra ugualmente inopportuna, ingiusta, vana, abietta e sanguinaria. Una guerra che ben si accorda con le ritmiche pressanti e ipnotiche della batteria, mentre ci mettiamo in coda, l’uno dopo l’altro, per ricevere quello che sarà il colpo finale. Che possiamo fare? Che possiamo fare per mettere fine a questo folle e bellicoso sfascio? Ci sentiamo talmente vuoti, talmente deboli, talmente incapaci.
PLAY FOR TODAY [Seventeen Seconds, 1980]
Ci sentiamo così distanti dalla pace e dalla serenità, che anche sentimenti sublimi – come la giustizia o l’amore – sfumano e sbiadiscono; in fondo, non nascondono, anch’essi, un orribile substrato di compromessi? Di scelte, di comportamenti, di mosse, in un senso o nell’altro, che condurranno alla tanta agognata, cercata ed anelata ricompensa. Una ricompensa che sarà il piacere e la soddisfazione di entrambi, che ci permetterà di sentirci appagati, perché abbiamo, finalmente, recitato il nostro ruolo in quella che, però, resta solamente una commedia ripetitiva, una farsa che non ci rende né più veri, né più reali. Meglio, dunque, lasciarsi risucchiare da questa chitarra fluida e diventare un tutt’uno con essa e con i suoi maliziosi riverberi.
KYOTO SONG [The Head On The Door, 1985]
Echi di un mondo sconosciuto, di una persona sconosciuta, di una notte sconosciuta, di una casa sconosciuta, eppure mi appartengono. Non conta quanto sia gelido il pavimento su cui ci siamo sdraiati, quanto sia gelida l’acqua alla quale abbiamo affidato i nostri corpi intorpiditi o quanto siano gelidi e preoccupanti i nostri incubi, perché essi sono parte di noi; sono le voci che spingono a non lasciarci trasportare dalla corrente dell’assuefazione e dell’insensibilità; sono il legame con il luogo magico al quale ciascuno di noi si sente connesso, ci abbia vissuto o meno, esista oppure no; non importa, quel luogo è nostro e ci appartiene.
THREE IMAGINARY BOYS [Three Imaginary Boys, 1979]
Ci appartengono il giardino e il lungo corridoio, ci appartiene la nostra stessa ombra, ci appartiene il vuoto, ma anche l’attesa di un nuovo domani, un domani che confidiamo sia migliore, mentre le trame post-punk del brano rimandano ad un passato che si è frantumato e polverizzato, ovvero quello della prima ondata punk-rock, quella che urlava “no future”, ma, invece, il futuro è arrivato, con il suo cielo plumbeo, con le sue nubi, con le sue nuove mode e le sue economie di mercato. E di quelle voci rabbiose non rimane più quasi più nulla, solamente un’eco romantica che ritroviamo tra le immagini uggiose e nostalgiche di questa canzone magnetica e seducente.
M [Seventeen Seconds, 1980]
E quando queste immagini prendono il sopravvento, non si può fare a meno di ascoltarne le trame distorte: un volto che appare sbagliato; una frase che non ha alcun significato; un amore che guarda in un’altra direzione. Forse è perché la luce sta assumendo una forma obliqua e repulsiva, aberrando quella che dovrebbe essere la corretta interpretazione delle nostre percezioni, dei nostri stati d’animo e dei nostri sentimenti, rendendoli, di conseguenza, avulsi, rendendoli distanti, rendendoli assolutamente indifferenti.
PRIMARY [Faith, 1981]
Quando le cose sono così sconvolgenti e così estranee, meglio, allora, tornare sulla strada, pura ed innocente, dell’infanzia; è il momento di rallentare il ritmo, di affidarsi alle sonorità crude e darkeggianti di “Faith”, alle sue architetture minimali, a quelle storie che ci raccontavano da bambini, quelle che facevano paura, ma erano anche cariche di utopiche speranze e di voglia di rivalsa; storie che non invecchiavano mai. Un po’ come avviene nella nostra mente, quando ci soffermiamo su un viso amato, sul suo sguardo, sulla sua pelle morbida, sui colori e sui sapori che risvegliano ed ispirano la parte migliore del nostro spirito, quella più fantasiosa e immune allo scorrere del tempo, lo stesso bizzarro tempo che se frega di tutto quello che incontra e che travolge nel suo impassibile ed imperturbabile cammino.
THE HANGING GARDEN [Pornography, 1982]
Questa canzone caratterizza quello che è, probabilmente, l’album più dark della band inglese; un disco difficile e tumultuoso, che risente del clima conflittuale nel quale è stato concepito e registrato, ma che, allo stesso tempo, si mantiene, perennemente, vivo e pulsante. La pioggia batte incessantemente sui Cure, sulle contraddizioni degli anni Ottanta, sulle intrepide creature della notte, le quali scambiano, ingenuamente, per verità rivelata, i bagliori della Luna; ignare che, alla Luna, delle nostre tribolazioni, non importa assolutamente nulla. Lei ha già i suoi animali e le maree, possiede una moltitudine di sognatori, di navigatori e di poeti che le concedono i propri inni, le proprie preghiere e le proprie maledizioni; perché, dunque, dovrebbe perdere tempo con baci privi di futuro, con baci cancellati dalla pioggia che cade, senza tregua, su questo giardino che potrebbe essere, in verità, solamente un’altra scontata e mendace prigione di voluttà e di piacere?
FRIDAY I’M IN LOVE [Wish, 1992]
Se, con Pornography, l’apogeo ombroso della paranoia e della depressione è giunto al massimo, questi accordi e queste melodie ci spalancano, invece, le porte di una fiaba leggera e divertente. Giusto, allora, lasciare che quella che è solamente una balorda, ma magnifica canzone pop venisse dopo le maniacali e ossessive atmosfere del giardino pensile. Robert Smith non è soltanto quella creatura patologica che i media continuano a celebrare; Robert Smith è un burlone che ama lasciarsi trasportare da una filastrocca dei giorni trascorsi, egli può attraversare delusioni e cuori infranti, può danzare con le tonalità del tempo e con le parole, può essere fatuo, può essere incantatore, può essere terribilmente radiofonico e può sbarazzarsi, per 3 minuti e 35 secondi, di tutti i suoi famelici spettri, tanto, il tempo di questa scalmanata sbronza pop, ed essi ritorneranno puntualmente.
PICTURES OF YOU [Disintegration, 1989]
Ci riusciranno, ci riusciranno anche se le fiamme della follia bruceranno ogni cosa, basteranno, semplicemente, i ricordi scolpiti in una semplice fotografia. Persone che continuano a vivere su queste superfici sottili; persone che ci chiamano, anche se le loro bocche restano chiuse; possiamo confidare loro i nostri peggiori segreti, certi che, in un modo o nell’altro, esse ci ascolteranno e saranno in grado di ispirarci. Il desiderio, l’amore e la malinconia, in questo brano, camminano in sintonia, e hanno l’impellente bisogno di qualcosa di materiale, di fisico e di consistente cui attaccarsi. Creiamo, in continuazione, oggetti da fecondare e rendere unici e speciali, in modo tale che, quando quella persona non farà più parte del nostro mondo, quando perderemo ogni contatto, potremo continuare a possederla e sentirla parte di noi. Anche quando lei cambierà, potremo soddisfare il bisogno di riviverla proprio com’era, nel preciso istante nel quale la fotografia ha preso vita e ha iniziato a vivere di vita propria. Un inutile appiglio di sopravvivenza? Un’asfissiante e morbosa mania? Una pericolosa e sfacciata illusione? O un innocente e violento pegno d’amore?
DISINTEGRATION [Disintegration, 1989]
L’ultima canzone di questa playlist visionaria è quella che chiude l’omonimo e fortunato album che sancì, in pratica, il successo commerciale dei Cure, permettendo loro di far sentire la propria voce anche in America. Ma non si tratta di un album facile e spensierato; è, invece, un album velato di tristezza e ribollente di vuoto, un album che ti arriva dritto nelle viscere, un album che spazza via tutte le menzogne alle quali ci appoggiamo, mostrando, tra le linee glaciali dei suoi synth, tutti i fantasmi che si nutrono delle nostre paure e delle nostre insoddisfazioni. Un album che finisce ripetendo la medesima parola: “sempre”. Noi, infatti, lo abbiamo capito com’è che finiscono sempre le nostre relazioni affettive, le nostre promesse, i nostri sogni, i nostri legami. Essi finiscono tutti per annegare in un oceano di vanità, di dipendenza tossica, di doppiezza, di reciproci inganni, di stupide macchinazioni e di piccoli e grandi tradimenti, che non hanno bisogno di alcun bacio per essere sanciti o riconosciuti. Lo sappiamo, ma continuiamo, incessantemente, a perseverare in questo mare increspato, forse perché crediamo che, continuando ad attraversare queste innumerevoli fini, saremo immortali? Siamo veramente così stolti?
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