Più il tempo mostra il suo effetto sui nostri corpi, più noi ce ne distacchiamo; lui può ucciderci, ma noi possiamo ignorarlo, possiamo trascurarlo, possiamo spezzarlo, possiamo lasciarci trasportare dall’auto-reverse onirico di cui sono dotate le nostre anime e ritrovarci, improvvisamente, in un’altra dimensione: no, non si tratta del 1989, ma nemmeno di questo irascibile presente o del futuro che, nonostante i tanti proclami disfattisti o i soliti slogan carichi di pericolosa indulgenza, nessuno può davvero prevedere. Si tratta, invece, della consapevolezza, al di là di tutte le congetture, di aver davvero liberato, finalmente, la nostra fantasia; di riuscire a trasmettere ciò che siamo veramente; e di non aver più timore di affrontare quelle che sono le nostre meditazioni più oscure.
In un mondo che si convince, sempre più, di dover correggere e perfezionare ogni cosa, comprese le nostre stesse emozioni, sfruttando la potenza di calcolo delle sue intelligenze artificiali e creando incastri assolutamente perfetti di suoni e di parole, magari sfidando persino la morte, questo disco, con i suoi inciampi, le sue ombre e le sue imperfezioni, diventa, dinanzi ai nostri occhi assuefatti alla intensa luminosità degli elettroni che corrono, follemente, da un punto all’altro di chip e di schede elettroniche, un altare della autenticità e della sincerità.
Robert Smith è intriso di tempo trascorso, la sua stessa voce lo è, ma, ciò nonostante, essa non scompare sotto un noioso rivestimento di arrangiamenti impeccabili. Anzi, distaccandoci da questa luce così accecante, possiamo assaporare le varie tonalità e i diversi colori che concorrono alle otto canzoni del nuovo disco dei Cure. Possiamo passare, infatti, dall’epicità malinconica di “Alone” all’agile ed impulsivo dinamismo di “A Fragile Thing”; dalla obliquità melodica di “All I Ever Am” alle trame suadenti e sintetiche di “And Nothing Is Forever”; dalle parole ed atmosfere funeste, estranianti e romantiche di “Endsong” alla cruda e rabbiosa “Warsong”; dalla gelida bellezza artificiale di “Drone:Nodrone” alla calda bellezza umana di “I Can Never Say Goodbye”, un brano che scava nel dolore della perdita fraterna, un brano che tenta di riempire il vuoto, interrogandosi su quella che è l’eredità spirituale di coloro che ci hanno lasciato. Sapremo custodirla? Sapremo valorizzarla? Sapremo mantenerla viva?
“Songs Of A Lost World” non vuole nascondere né la stanchezza accumulata negli anni trascorsi, né la lentezza fisica dei gesti e degli atteggiamenti, non ha alcun bisogno di divagazioni virtuali e radiofoniche e può essere meravigliosamente assorto e pensieroso, elaborato e, allo stesso tempo, schietto e genuino. Un album che si immerge, completamente, nel tempo, in questo tempo e in quello a venire e che, sbriciolando dubbi, ricordi e memorie passate, se ne separa, andando a costruire un luogo nel quale, anche senza gli algoritmi e le AI, possiamo abbracciare, accogliere e rielaborare, in base alle nostre esperienze e alle nostre percezioni, i suoni, i sentimenti, le parole e le narrazioni di coloro che ci hanno amato e preceduto.
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