Noise-rock dirompente ed abrasivo, che, con sfrontatezza, con ironia, con sarcasmo e con rabbiosa allegria, prende a pugni ciò che noi definiamo successo, ciò che custodiamo, gelosamente, nelle nostre belle casette, ciò a cui siamo visceralmente attaccati e che rappresenta il prezioso ed esclusivo simbolo della nostra affermazione sociale.
Ma sotto le incisive, frenetiche, urlanti e martellanti percosse e legnate sonore della band di Leeds, queste architetture globalizzate si sgretolano, trasformandosi in ritornelli distorti, in trame acide e punkeggianti, in esplosioni rabbiose e in un bruciante e veemente delirio sonoro. I Thank sono l’uragano che intende abbattersi su quella che una classe dominate e padronale elitaria, la quale, nascosta dietro i suoi falsi sorrisi, dietro i suoi luccicanti, rassicuranti e mediatici atteggiamenti buonisti, dietro le sue facili ed ostentate promesse, nasconde quella che è, in fondo, la stessa avidità che ha caratterizzato il Novecento.
Un profondo e tossico baratro di subdolo controllo e di apparente normalità che dà forma ad un fiume di risposte velenose e pungenti, mentre la pazzia diventa il vento salvifico che spazza via tutte le notizie negative, tutti i ruoli politici, tutte le informazioni accumulate nei loculi di Internet, tutti i proclami ammalianti dei democratici e tutti gli odiosi e merdosi recinti costruiti dai repubblicani, lasciandoci, finalmente, tutti nudi, tutti ugualmente spogli e senza più alcun velo di inganni, fandonie e doppiezza, davanti a quello che è il nostro selvaggio, feroce, autentico e sincero io-bambino.
Una mente finalmente pura, un corpo finalmente pulito, una lingua finalmente onesta, che, attraverso il susseguirsi di questi dieci brani, invadono tutte le stratificazioni economiche, etiche e estetiche che ci costringono ad ubbidire a quelli che sono solamente degli stronzi, siano essi dei presidenti, dei capi di governo, dei ministri, degli amministratori delegati, dei sindacalisti, dei leader politici, dei maestri, dei professori, dei giudici, dei poliziotti, dei soldati, dei preti, dei rabbini o dei mullah. A questa masnada di boriosi, inutili e aggressivi carcerieri i Thank rispondono con il loro rock industriale, che, tra casse tonanti, synth energici e bassi profondi, ci ricorda, con furente e furibonda verità, che, tutti voi, dannate e infami carogne, non avete fatto altro che rubare e depredare il nostro tempo e questo tempo, purtroppo, non potrà mai più esserci restituito.
“The time that you stole, I’ll never get it back.”
Ma non crediate che ce ne staremo buoni per sempre, non pensate che continueremo a dormire ed accontentarci delle briciole che ci elargite, perché, prima o poi, anche gli ultimi, anche gli sciocchi, anche gli emarginati, anche quelli che, ai vostri occhi, sono solamente dei cartoni animati divertenti e sfigati, apriranno gli occhi e si renderanno conto che, alla fine, voi e i vostri corpi potete essere colpiti, potete essere feriti, potete essere danneggiati e, soprattutto, potete concludere i vostri giorni in quella che è una deprimente esperienza di disagio e di assurdità, una quotidianità alla quale la band inglese, con il suo spoken-word, con i suoi inni erosivi, con la sua elettronica punk sperimentale, con le sue veementi e caotiche divagazioni chitarristiche, dà quella che è una folle, lucida e assolutamente veritiera rappresentazione sonora.
Comments are closed.