Dopo il fatidico 1973, dopo che il prisma aveva mostrato quello che si celava in quell’immacolato raggio di luce bianca, facendoci, finalmente, “vedere” ed “ascoltare” come quella apparente purezza, in realtà, nascondesse le lunghezze d’onda delle nostre smanie, delle nostre ambizioni e delle nostre folli ed insensate richieste di potere, di tempo, di fama o di ricchezza, i Pink Floyd erano, ormai, una band diversa, una creatura con molteplici volti, uno per ciascuno dei sette colori venuti fuori da quel magico e diabolico oggetto geometrico. Erano diventati una band alla quale la dimensione del progressive-rock andava, oramai, davvero troppo stretta.
“Dark Side Of The Moon” aveva rivelato quanto miserabili fossero l’industria dello spettacolo e quelli che ne facevano parte, quanto miserabili fossero le loro stesse ambizioni, quanto miserabili fossero le loro colpe passate e, soprattutto, quanto miserabile fosse la volontà di continuare ad alimentare – per ambizione, per interesse, per piacere, per convenienza o per viltà – quest’industria famelica, decidendo di continuare a creare e a produrre altri dischi, altra musica, altre canzoni. In questo contesto, così rivelatorio e consapevole della propria fine, “Wish You Were Here” era l’album dell’ostinazione maniacale, l’album dei ricordi malinconici, l’album che tentava di celebrare la purezza che sapevano di aver perduto per sempre. Dunque, chi poteva incarnare e personificare, in quelle che erano state fino ad allora le loro esperienze umane ed artistiche, il più alto e nobile simbolo di purezza, di candore e di innocenza? Ovvio, Syd Barrett.
Questa semplice e, per certi versi, banale intuizione di Roger Waters trasformò quattro note, intonate sulla chitarra elettrica di David Gilmour, in un inno epico ed estraniante, melodico e disturbante, alieno ed introspettivo, che, attraverso l’ombra inquietante e, allo stesso tempo, scintillante di Syd Barrett, della sua instabilità mentale e della sua arte lucente, spinse i Pink Floyd verso i meandri oscuri della nostra psiche, verso le galassie sconosciute dell’universo, verso un ulteriore, immenso successo main-stream e, quindi, verso la straziante e lacerante cognizione che, ancora una volta, la macchina, con i suoi gelidi meccanismi e i suoi ingranaggi disumani, aveva vinto, soffiando su tutto e su tutti, sui loro e sui nostri sentimenti, la sua feroce e famelica brezza d’acciaio. Intanto, mentre Waters e compagni, cercavano, invano, di trovare una strada attraverso le oscurità dell’animo umano, imbattendosi solamente in altri astuti vampiri e in altri mostri senza coscienza, una voce assurda e spietata, brutale e crudele, chiedeva, interrottamente, chi di loro fosse il famoso Pink.
“Oh, by the way, which one’s pink?”
Una domanda inutile e beffarda, che affonda, come una lama affilata, nel gioco drammatico al quale questa band sta partecipando, accumulando denaro e successo, influenza e adorazione, e spingendosi, sempre più, in un bellicoso e solitario tunnel di incomunicabilità che li avrebbe condotti alle trame dispotiche ed apocalittiche di “Animals” e, quindi, al necessario, salvifico ed indispensabile abbattimento di quel muro di isolamento e alienazione, nel quale, mattone dopo mattone, cementiamo tutte le nostre paure e le nostre insicurezze, tutti i nostri dolori e le nostre perversioni, tutta la nostra rabbia e la nostra folle aggressività, arrivando, addirittura, in quello che, magari, è solo il sogno disperato di un tossico o, peggio ancora, uno dei nostri possibili futuri, a trasformare l’innocenza primordiale del pifferaio/di Pan/di Syd/di Pink nella atroce e oscura visione di un despote nazista, di un autocrate tiranno nel quale Roger Waters riversa e concentra quella che è la visione di un mondo dominato ancora da politiche neo-colonialiste, discriminatorie e ingiuste, una visione perversa e malvagia che, purtroppo, provoca, ancora oggi, solamente altro odio, altra distruzione, altro sangue, altra morte.
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