Go Dugong e Washè esaltano, con la loro opera, quel linguaggio musicale universale che non solo permette di mettere in connessione e in comunicazione tra loro storie, esperienze, conoscenze, passioni, narrazioni e individualità appartenenti ad idiomi, tradizioni e culture differenti, ma che consente anche di creare un rapporto e uno scambio osmotico tra la componente umana e quella naturale di questo pianeta.
Fiumi, montagne, alberi, animali e foreste, così come gli strumenti analogici e le loro accurate rielaborazioni elettroniche, diventano la materia sonora grezza da plasmare, affinché questi dieci brani possano prendere finalmente vita ed iniziare a parlarci e a raccontarci di sé. La loro è, infatti, una lingua antica, la lingua della terra, una lingua che precede la Storia stessa, che precede le invenzioni della ruota e della scrittura, più antica dei Sumeri o degli Egizi. La storia narrata nasce dai bisogni e dalle paure primordiali del genere umano, dalla nostra spontanea curiosità e da quel rapporto indissolubile che la nostra specie ha avuto, e deve continuare ad avere, con la natura, con i suoi delicati e millenari equilibri, con le sue stagioni, con le sue maree, con le sue correnti e con tutte le creature animali e vegetali.
Da ciò nasce l’esigenza di questo viaggio a ritroso, un percorso onirico, collettivo e folkeggiante che ci porta a ritrovare i suoni, le voci, i rumori e gli strumenti del passato, quelli appartenenti alle tribù indigene dell’Amazzonia, ma anche quelli propri del nostro Meridione, quelli che accompagnavano le giornate di lavoro dei nostri antenati e che, oggi, rappresentano il filo invisibile che ci lega alle nostre antiche origini greche, latine, arabe o normanne, e che, allo stesso tempo, ci rammentano quanto sia stupido fomentare l’odio razziale, la diffidenza e l’ostilità nei confronti delle persone che provengono da altre latitudini e longitudini. Anche noi, infatti, proveniamo da altrove, anche noi, come gli uccelli, migriamo da un luogo all’altro, lottiamo per la sopravvivenza, cerchiamo un futuro migliore, proviamo il dolore e la sofferenza, ma anche la gioia immensa di poter spiccare, liberamente, il volo, in un cielo che non appartiene, e non apparterrà mai, a nessun dispotico padrone.
Ed, invece, sempre più spesso, dimentichiamo le nostre ali e preferiamo rinchiuderci in un ristretto e competitivo mondo artificiale, comportandoci come se fossimo dei robot, senza alcun rapporto con la natura circostante, convinti, erroneamente, di esserne i dominatori assoluti e, di conseguenza, andandone ad alterare i perfetti ecosistemi, inquinando, intossicando, uccidendo ed avvelenando l’ambiente, e mettendo, quindi, la nostra stessa fragile esistenza a grave rischio. Questo disco, “Madre”, suona, allora, sia come un grido di allarme, che come un invito a liberarci delle nostre assurde manie individualiste, proprio come avviene con le tribù della foresta Amazzonica, per le quali il benessere, la sicurezza o la pace della comunità hanno più importanza di uno sciocco e minuscolo ego. Solo quando riusciremo a comprenderlo e, soprattutto, a metterlo in pratica, potremo essere davvero felici.
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