Probabilmente Bret Easton Ellis è l’autore che, più di tutti, vive un rapporto pulsante, vivo, intenso e profondo con la musica rock, soprattutto quella che abbraccia quel decennio scintillante e spensierato, ma anche stritolante e spietato, che furono gli anni Ottanta.
E’ innegabile che, nelle sue opere, si respira un vuoto famelico e profondo; un vuoto, nel quale si insinuano misoginia e tossicodipendenze, morte e nichilismo, superficialità e materialismo, mentre i suoi personaggi, con fredda, ostinata, maniacale ed egocentrica indifferenza, si avvicinano, sempre più, al definitivo e distruttivo punto di non-ritorno; è come se, tutti loro, volessero mostrarci e provarci, fisicamente, che, dietro la sfavillante, ammaliante e gustosa estetica pop, dietro i corpi, le forme e le movenze perfette, dietro i loro costosi occhiali scuri, non c’è assolutamente nulla: nulla per cui valga la pena soffrire; nulla a cui attaccarsi; nulla in cui impegnarsi.
E persino la musica, quell’ondata new-wave che, a partire dalla fine degli anni Settanta, dopo l’annullante e liberatorio biennio punk, prese il sopravvento culturale e mediatico, spesso, nei suoi romanzi, sembra, solamente, voler svilire la realtà dei fatti e degli eventi, esaltando, invece, tutto ciò che di ostile e violento si cela nelle nostre coscienze e spingendoci, tutti, verso una dimensione, individuale e collettiva, anarchica e insofferente, caratterizzata dalla assoluta mancanza di ideali, di modelli positivi, di riferimenti, di passione e di sentimenti. Una dimensione del facile e dell’immediato, che se ne frega dei valori o della storia e che arriva, dunque, a negare la sacralità della vita umana.
In tal senso, l’autore americano, con i suoi libri, predice e estremizza quella che è, in fondo, la nostra attuale condizione, il nostro eterno presente mediatico; un presente che rende qualsiasi concetto temporaneo, calando, nel frattempo, la sua scintillante mannaia virtuale su qualsiasi mito, su qualsiasi eroe, su qualsiasi dottrina, su qualsiasi principio, su qualsiasi pensiero e su qualsiasi forma di creatività, compresa, quindi, la musica.
Questa realtà intorpidita sembra sussultare solamente alla vista del sangue e della violenza, la violenza delle guerre, ma anche la violenza quotidiana delle nostre relazioni sociali e affettive, che ci confina in una pericolosa dimensione dominata dall’ansia, dall’apatia, dai peggiori fantasmi di “American Psycho”, da una dilagante indifferenza nei confronti delle sofferenze e difficoltà altrui e, soprattutto, da una forte repulsione verso qualsiasi forma di rifiuto. In questo mondo iper-tecnologico, infatti, si può morire per un “no”, per un’opinione, per una frase scomoda, per uno sguardo di troppo, per un atteggiamento diverso, per una semplice debolezza. Tutti sono convinti di essere nella ragione e tutti temono il giudizio dei social, tutti cercano una bellezza impossibile e tutti si mostrano intolleranti alle critiche, anche quando esse potrebbero essere vissute e trasformate in un’occasione di miglioramento.
Nel mentre, Bret, dona a queste creature umane che si stanno auto-distruggendo, una colonna sonora incauta, leggera, sfrontata, imprudente, emozionante e accattivante: Blondie, Duran Duran, Elvis Costello, The Psychedelic Furs, Billy Idol, Talking Heads, INXS, Madonna, Ultravox, The Buggles e tanti altri ancora.
Non è, dunque, una magnifica uscita di scena?
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