Il 25 Luglio del 1965 – al Newport Folk Festival – Bob Dylan attaccò la sua chitarra ad un amplificatore e cambiò, per sempre, la sua carriera, la sua storia e la sua pelle sonora, trasformandosi in un artista “elettrico”.
Dylan il vecchio e Dylan il giovane, Dylan il profeta e Dylan il traditore, Dylan l’eroe e Dylan il vile, Dylan l’angelo e Dylan il demonio, Dylan il peccatore e Dylan il santo.
Dylan, che, secondo i detrattori del tempo, lasciava la musica impegnata, importante e di protesta, per abbracciare una musica più facile, più scontata, più radiofonica e, quindi, più commerciale. Dylan che abbandonava il sogno della rivoluzione e si vendeva al mercato, alle masse, al consumismo musicale, a quelle chitarre elettriche che, alcuni (abbastanza sprovveduti, in verità), ai tempi, vedevano come un subdolo strumento per confondere e per distrarre gli ascoltatori, allontanandoli dal messaggio, dal testo, dalla verità, dalle idee e dai concetti.
Ma oggi, fortunatamente, abbiamo compreso che qualsiasi band, qualsiasi artista, qualsiasi persona, ha assolutamente bisogno di evolvere, di apprendere, di cambiare i propri orizzonti e le proprie prospettive, nonché di lasciarsi influenzare da ciò che osserva ed ascolta, perché, in fondo, come ci insegna anche la natura, la staticità equivale alla morte.
Questo film ripercorre quegli anni magici e innocenti, anni che videro – dal 1961 al 1965 – Robert Zimmerman prima essere celebrato, dalla comunità folk newyorkese del Greenwich Village, come un modello e un riferimento, portandolo a firmare un contratto con la Columbia Records, e, successivamente, apostrofandolo come un ingannatore, come uno spergiuro, come un rinnegato.
Questa ne è la colonna sonora, un disco nel quale Timothée Chalamet, l’attore che impersona Bob Dylan, ne interpreta, in maniera schietta, sincera e anche abbastanza divertente, alcune canzoni. Ma, onestamente, al di là dell’ottimo esercizio musicale, noi preferiamo, di gran lunga, le versioni originali. Apprezziamo, ovviamente, l’impegno e il lavoro ben riuscito di Chalamet, ma, nonostante tutto, restiamo in una dimensione ludica, con un approccio karaoke-style. Di conseguenza, il nostro consiglio è quello di ascoltare il disco, ma di lasciar perdere qualsiasi futuro investimento economico, a meno che voi non siate dei super-fan incalliti del menestrello di Duluth e, quindi, vi sentiate in obbligo di possedere il supporto fisico anche questa ennesima raccolta.
23 canzoni che vi scalderanno il cuore, vi faranno sognare, vi faranno riflettere, ma che restano, comunque, confinate nella dimensione fantastica del film di James Mangold, anche perché, in fondo, nonostante la passione che emanano le interpretazioni sonore presenti nell’album, crediamo sia preferibile sintonizzarsi, direttamente, su Johnny Cash, su Joan Baez o su Pete Seeger e sugli angeli e sui demoni che spinsero un’intera generazione a prender, finalmente, coscienza di sé, del proprio potere collettivo e delle infide malefatte del proprio governo. Le malefatte di quei signori della guerra, che allora, come oggi, fanno affari con la morte, nascondendosi dietro i loro muri di finta democrazia, dietro le loro costose scrivanie, dietro le loro maschere sorridenti e politicamente corrette, convinti che, alla fine, i loro soldi sporchi di sangue innocente gli consentiranno di compare tutto quello che gli occorre: il perdono, l’assoluzione, il paradiso, l’ennesimo povero Cristo ammazzato su una croce.
Resta, comunque, il fatto che Timothée Chalamet è stato coraggioso, perché cantare Bob Dylan significa mettersi in gioco e rischiare critiche velenose, quindi possiamo affermare che ha superato brillantemente la prova e potrebbe, se ne ha voglia, in futuro, metter su un’ottima cover band dylaniana.
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