martedì, Marzo 4, 2025
Il Parco Paranoico

A Complete Unknown, James Mangold [film]

Mik Brigante Sanseverino Gennaio 24, 2025 Video Nessun commento su A Complete Unknown, James Mangold [film]

Il modo migliore per avvicinarsi e comprendere Bob Dylan è attraverso la musica, quindi il fatto che questo film di James Mangold, a differenza di molte altre pellicole biografiche, dedicate ad altri grandi musicisti, metta le canzoni e le esibizioni live al centro della trama, è, senza alcun dubbio, qualcosa di interessante e positivo, qualcosa che rende “A Complete Unknowm” migliore.

Dylan arriva a New York da perfetto sconosciuto, armato, semplicemente, di una irrequieta curiosità, e, ben presto, raggiunto un certo successo, viene, immediatamente, etichettato e definito, imprigionato, come spesso accade, in una parte che egli rifiuta di interpretare e rivestire per sempre. Non è un mimo, non è una maschera, non è un giocoliere, e nessuno di noi lo è, nonostante la società tenti, puntualmente, di formalizzare, ordinare, articolare e strutturare tutto ciò che decide di possedere, di manipolare e di controllare, compresi, ovviamente, i singoli individui, la loro arte, i loro sentimenti e le loro idee. E in fondo, il movimento folk degli anni Sessanta, nonostante le sue ottime intenzioni, nonostante la volontà di fare leva sullo spirito critico delle persone, aprendo loro gli occhi su problematiche enormi, quali la segregazione razziale, la violenza delle forze dell’ordine, le politiche predatorie e ostili del governo americano e la assurda follia della guerra, finisce per essere risucchiato in una spirale di avvilente conservatorismo musicale, stabilendo, come una qualsiasi istituzione reazionaria, le proprie regole e le proprie barriere. Regole e barriere che gli artisti non dovevano assolutamente infrangere.

In questo contesto, dunque, il passaggio di Bob Dylan all’elettrico e la voglia di attingere e farsi influenzare da generi diversi, assumono una consistenza liberatoria e redentrice, in armonia con quello che il nostro approccio paranoico, osmotico e permeabile a vivere la musica. Tutti noi avremmo scelto la strada che conduceva a “Highway 61 Revisited”, piuttosto che continuare a intonare e suonare per anni, in compagnia della sola chitarra acustica, “Blowin’ In The Wind”, questo sì che sarebbe stato il collasso di ogni idea, di ogni domanda, di ogni incertezza, di ogni interesse, di ogni salvifica e preziosa forma di curiosità. Perché, e questo è uno dei messaggi più significativi del film, la curiosità muove il mondo, ci consente di abbattere le divisioni statiche, di camminare lungo la storia, di stupirci, di incantarci, di ascoltare il pericoloso canto delle sirene, di combattere mostruosi giganti, di conoscere altri formidabili eroi, di scendere negli inferi della dannazione, della paura, del vuoto e della sconfitta, di essere dei re, dei giullari, degli ingannatori, dei combattenti e dei semplici nessuno, per far ritorno, se e quando ne avremo la voglia, alla nostra isola.

Oltre al protagonista, Timothée Chalamet, nel ruolo di Dylan, altra ottima interpretazione è quello di Edward Norton, nel personaggio di Pete Seeger. Egli, infatti, esprime, con maestria, la missione laica di Pete, ovvero trovare, finalmente, quel messia che avrebbe salvato la musica folk. Ma, alla fine, Pete comprende che non esiste alcun messia e, in generale, non è giusto imporre a chicchessia un ruolo di questo tipo. Non abbiamo bisogno di questi inutili calcoli, abbiamo solo bisogno di chiedere, di confrontarci e di improvvisare. La nostra esistenza non è altro che una jam-session, proprio come quella alla quale danno vita Bob e il cantante blues Jesse Moffette, in una delle scene più preziose e significative del film, una scena che ci fa capire come nessuno di noi, Bob Dylan o non Bob Dylan, può accontentarsi e può sentirsi davvero appagato nel fare, per sempre, la medesima cosa. 

Da un punto di vista strettamente personale e affettivo James Mangold dipinge un Dylan ventenne, quindi è normale che questo ragazzo possa apparire, a volte, distratto, un po’ egocentrico e instabile nel rapporto con le proprie compagne. Resta, però, a nostro parere, una illustrazione fantasiosa un po’ troppo severa, amara e negativa di Joan Baez; si ha l’impressione che il regista l’abbia voluta, forzatamente, costringere in una dimensione eccessivamente negativa, così da far brillare, ancora di più, il genio creativo dylaniano. Ma, onestamente, non c’era alcun bisogno di creare questa finta minaccia, aldilà delle intemperanze e dei rapporti strettamente personali tra Bob e Joan, Joan resta un simbolo della musica di protesta politica americana. I due artisti hanno percorso un tratto di cammino assieme, basti pensare alla loro esibizione alla marcia su Washington, e poi Dylan, com’è giusto e ineccepibile che sia, ha scelto, saggiamente e fortunatamente per tutti noi, di non rimanere congelato nella dimensione monolitica e folkeggiante del pur brillante “The Freewheelin’ Bob Dylan”, ma di attaccare la chitarra elettrica a un amplificatore e raccontarci altre stupende, splendenti, suggestive e poetiche storie.

Like this Article? Share it!

About The Author

Michele Sanseverino, poeta, scrittore ed ingegnere elettronico. Ha pubblicato la raccolta di favole del tempo andato "Ummagumma" e diverse raccolte di poesie, tra le quali le raccolte virtuali, condivise e liberamente accessibili "Per Dopo la Tempesta" e "Frammenti di Tempesta". Ideatore della webzine di approfondimento musicale "Paranoid Park" (www.paranoidpark.it) e collaboratore della webzine musicale "IndieForBunnies" (www.indieforbunnies.com).

Comments are closed.