Il nuovo terzo album della band irlandese è un lavoro che rifiuta qualsiasi sovrastruttura artificiale, che rappresenta il mondo e le nostre esistenze esattamente come sono, sommesse ed arrabbiate, disilluse ed incomplete, vuote e superficiali, colme di frasi ad effetto, di belle parole, di discorsi motivazionali, di promesse davvero ottime che, purtroppo, in realtà, non si concretizzeranno mai, lasciandoci affogare in un oceano di “se”, di “ma”, di “forse”, di “domani”, di dissonanze, di flashback e di ballate taglienti.
Bruciamo, ci consumiamo, passiamo, esattamente come avviene alle undici canzoni di questo disco, che potrebbero apparire disunite, ma che, invece, non fanno altro che fornire una rappresentazione sonora, veritiera, cruenta e darkeggiante, ai pochi, improvvisi ed imprevedibili bagliori di splendore, di stupore e di follia che arricchiscono le nostre vite. Sono questi i momenti che dovremmo custodire e salvare ed, attorno ad essi, dovremmo costruire le nostre stagioni, piuttosto che continuare a percorrere una strada altamente competitiva, frustrante, concorrenziale, disumana e morbosa che, alla fine, ci condurrà a scontrarci con un muro silenzioso, incurante e massiccio, un muro di dipendenza, di alienazione e di straniamento.
Ma prima che tutto ciò accada, abbiamo la possibilità di ringraziare il cielo per Shane MacGowan e per tutte le chitarre distorte, per i bassi profondi e per il ronzio eccitante degli amplificatori, per la purezza che pulsa dalle musiche popolari e per l’irruenza veemente e strafottente del punk-rock, nonché per il senso di comunità che, fortunatamente, ancora alberga su questo nostro sciagurato pianeta. E per la bellezza vera, la bellezza che non è quella puramente estetica o quella che potrebbero offrirci il potere e la ricchezza, ma è una bellezza scarna, una bellezza gracile, una bellezza minimale, una bellezza irregolare, una bellezza taglienta, una bellezza obliqua che non conosce alcun limite, alcuna barriera, alcun inutile divieto. E che, soprattutto, rifiuta lo spettacolo osceno al quale stiamo assistendo in questi giorni, uno spettacolo violento e fascista che trasforma l’aggressore nel liberatore, la vittima nel colpevole, la bestia nell’agnello.
Una bellezza umana, sensuale, appassionata e sessuale, una bellezza sonora che si incazza e si addolora, che urla e che protesta, che finisce in una bettola, nell’ennesima rissa, dopo l’ennesima sbornia, che sprofonda nella depressione e che ritrova la forza per uscirne e che confida, sempre e per sempre, nel rumore tempestoso delle sue band preferite, nelle loro trame più melodiche, nei loro riff più incisivi, nelle loro ritmiche più dirompenti e nei loro corpi segnati dalle stagioni trascorse, mentre un altro disco, l’ennesimo, un disco di Lou Reed, dei Joy Division, degli Smiths o di The Murder Capital, trova posto nel nostro cuore, negli scaffali emotivi della nostra esistenza, in quella dimensione fantastica nella quale risiedono i nostri sogni e le nostre passioni, i nostri umori e i nostri sentimenti. Una dimensione di pensieri e di rapporti, di relazioni e di idee, di traumi e di gioie, che dovremmo sforzarci, ogni giorno, di rendere l’unico possibile scenario delle nostre scelte, delle nostre lotte e dei nostri comportamenti.
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