C’è qualcosa di molto triste, quasi insopportabile, nel vedere queste canzoni svuotarsi del loro significato intrinseco, con la stessa indifferenza con cui scrolliamo la cenere da una sigaretta consumata.
“Gran Gala Punkettone”, operazione commerciale in piena regola e in svariate e molteplici forme (CD, DVD, BoxCD, Vinile, etc.), è un revival senza anima, un cerotto malinconico applicato ad un passato che ormai non sanguina più, ad una rivoluzione che, in verità, non c’è mai stata e che, oggi, viene, comunque, svenduta a rate, come una vera e propria celebrazione del vuoto, mascherata da reunion ed applaudita dal pubblico che, innamorato e narcotizzato, baratta i propri ricordi con un prodotto del merchandising ufficiale.
Il dramma non è che Giovanni Lindo Ferretti non è più il nostro profeta di rottura, perché egli, molto probabilmente, non lo è mai stato, ma è, soprattutto, la riproposizione live di brani, che, un tempo, infiammarono occupazioni, radio, piazze, club, movimenti, sentimenti, ideologie ed idee, e che, oggi, sono eseguite con un pigro e meccanico automatismo, private del loro naturale contesto e ridotte a semplici e banali slogan.
Cos’è questa, se non una truffa, l’ennesima, del rock ‘n roll?
“No future“. Conosciamo ogni parola di quei testi, ma, purtroppo, non crediamo più a nulla, non abbiamo né l’Est, né l’Ovest, e Ferretti, manager di sé stesso, non può che sogghignare soddisfatto, dilatando i nove brani di questo disco e fissando la trasformazione di un pubblico che, mentre negli anni Ottanta urlava, energicamente, la propria rabbia, il proprio disprezzo, la propria rivalsa e la propria insoddisfazione, adesso, nel nuovo splendido millennio, si limita a filmare con il proprio smartphone, auto-imprigionandosi e collassando in quello che è uno stanco, surreale e fastidioso revivalismo da memorabilia da museo.
Ma, intanto, nel mondo vero, nel mondo reale, nel mondo armato, nel mondo guerreggiante, nel mondo pornografico, nel mondo violentato, di Emilie paranoiche ce ne sono ovunque. Il punk-rock, dunque, non ha assolutamente bisogno di ritornare alle proprie radici, né di celebrare monumenti, posare per le foto, vendere vinili rimasterizzati e registrare la propria anima come se fosse un banale marchio, perché quando il palco diventa solamente una vetrina, allora la musica, punk o no, muore e a noi non rimane che applaudire al cadavere.
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