Berlino è ancora, in alcune sue peculiari realtà, un laboratorio sociale ed estetico, uno dei pochissimi laboratori, ancora vivi e pulsanti, qui in Europa; un laboratorio che ha attraversato il Novecento come una lama affilata, un secolo fatto di muri visibili ed invisibili, di immani devastazioni e di sorprendenti rinascite, di cui la citta tedesca ha rappresentato la complessa e profonda identità. Una identità che, purtroppo, oggi, messi dinanzi alla attuale superficialità dei tempi post-moderni, fatichiamo a riconoscere ed apprezzare.
Durante gli anni ’70 la parte occidentale della città fu un surreale avamposto nell’Est comunista, un luogo in cui tutto appariva possibile, proprio perché nulla era normale. Una città isolata, circondata dalla DDR, nella quale artisti, in cerca della perduta libertà creativa o desiderosi di fuggire dalla loro oppressiva realtà, trovavano la propria dimensione esistenziale ed il proprio rifugio. Quante volte abbiamo, infatti, letto aneddoti sui periodi berlinesi di Brian Eno, Iggy Pop o, soprattutto, di David Bowie, su quei dischi che mescolavano rock, ambient ed elettronica e che erano fortemente e intensamente influenzati dai paesaggi urbani di questa città divisa.
“Possiamo essere eroi, solo per un giorno“, non è solamente una frase poetica, ma il richiamo appassionato di una speranza ancora possibile, in una città spezzata, dove due ideologie si fronteggiavano, a pochi metri di distanza, l’una dall’altra. Berlino, in quegli anni, era un luogo in cui il rock si faceva militanza, con suoni incalzanti, crudi, autentici e viscerali. Negli anni Ottanta essa era la naturale dimensione di punk e no-wave, di band come i Die Ärzte e gli Einstürzende Neubauten che diedero voce al disagio metropolitano, al nichilismo post-industriale a alla omologante e vuota normalità borghese.
L’Est, intanto, sviluppava la sua controcultura clandestina, con gruppi come i Die Anderen o i Feeling B, i futuri Rammstein, artisti che rischiavano, ad ogni concerto non autorizzato, i severi carceri della DDR, ma la musica, all’epoca, era anche un atto politico, nonché un ponte che non conosceva alcuno sbarramento ed alcun checkpoint. E quando, nel 1989, il muro cadde, divampò, con forza, il caos creativo, molte fabbriche abbandonate, soprattutto ad Est, si trasformarono in club in cui la musica elettronica, soprattutto la techno, soppiantava il punk come musica della rivolta e, a sua volta, il punk evolveva e si mescolava al metal, al grunge e ai suoni più industriali.
I Rammstein furono, tra i primi artisti, portavoce di quella potenza, di quella teatralità e quelle provocazioni, nonché di una musica, figlia della guerra fredda, che urlava, in tedesco, la riaffermazione della propria cultura e della propria identità, dopo decenni di dominio sovietico o anglofono.
Oggi, purtroppo, anche Berlino, come molte altre città del mondo, è una città globalizzata, gentrificata e instagrammata, in cui la musica non è più testimonianza di resistenza e di sopravvivenza, ma un sottofondo estetico per aperitivi e per serate alla moda e, persino, la rabbia punk è divenuta un banale oggetto di marketing, così come le ideologie radicali, di destra e di sinistra, svuotate di ogni rischio e ogni autenticità, vengono commercializzate e svendute dai grandi marchi, nel nome del rumore bianco e dell’intrattenimento perpetuo.
Politicamente, Berlino è stata, per anni, il vero simbolo della Guerra Fredda, della divisione tra l’Est e l’Ovest, tra il capitalismo e il socialismo reale. Ma è anche stata il luogo dove queste due anime si sono osservate e influenzate a vicenda, creando una cultura unica nel suo genere. La musica rock è stata sia veicolo di identità, che forma di opposizione, testimone della frammentazione e della successiva ricomposizione. Oggi, dunque, in un mondo dove tutto è visibile, ma poco è profondo e tutto è spesso fasullo, la sfida di Berlino è quella di non dimenticare la sua anima inquieta. Quella dei club illegali, delle chitarre distorte e dei testi urlati contro i numerosi muri del potere che non sono ancora crollati. Una città che, come diceva Lou Reed, è sempre “waiting for my man”, sempre alla ricerca di qualcosa di vero, anche tra le rovine delle nostre opprimenti post-verità.
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